venerdì 15 settembre 2017

BASSETTI: PUGLISI TRA I PADRI DI PALERMO



Veglia di preghiera in onore di Padre Pino Puglisi
Palermo, 15 settembre 2017

Meditazione

di S. Em. Card. Gualtiero Bassetti



Pubblichiamo il testo integrale dell'intervento del cardinale Bassetti per come è stato diffuso alla stampa. il presidente della Cei in piazzale Anita Garibaldi ha poi integrato o ridotto a braccio il testo sull'onda delle emozioni per la veglia  e per le testimonianze ascoltate




Carissimi fratelli e sorelle,
è veramente una grande emozione per me essere questa sera a Palermo. Sono particolarmente grato all’Arcivescovo, mons. Corrado Lorefice, che con il suo invito mi ha riempito il cuore di gioia. Rivolgo un saluto affettuoso a tutte le autorità civili presenti e porgo un abbraccio a questa stupenda città, alla sua popolazione e, in particolare, a tutta la gente del quartiere Brancaccio: il luogo che ha visto nascere, esattamente 80 anni fa, il 15 settembre 1937, don Pino Puglisi, e che lo ha accolto, poi, nel settembre del 1990, come sacerdote, quando venne nominato parroco a San Gaetano. Il Centro di accoglienza Padre Nostro è la prima eredità visibile che don Pino ha lasciato a questo quartiere. La prima eredità visibile, non certo l’unica.
Sono veramente commosso di essere qui questa sera, perché don Pino è stato un volto a me caro e persino familiare. L’ho conosciuto personalmente fra gli anni Settanta e Ottanta. Ero rettore del Seminario di Firenze e responsabile del Centro regionale per le vocazioni. Anche don Pino era impegnato in Seminario e nel Centro vocazionale. Ci vedevamo agli incontri nazionali. Ne ricordo ancora il suo sorriso, il suo sguardo, la sua dedizione totale al Signore. Una persona apparentemente fragile. Ma già allora si percepiva che era un gigante della fede. Percorreva altre strade rispetto a tutti noi.
 
Il padre e il prete
 
Stasera abbiamo spesso sentito risuonare questa parola del Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». E don Pino, nella catechesi che avete appena letto, spiegava queste parole sottolineando con forza il gesto di amore totale che Gesù ha compiuto sulla Croce: Egli ha dato «tutta la sua vita»; «tutta» e non una parte, non si è fatto sconti, non si è risparmiato. Senza dubbio, è questo un passo evangelico che sintetizza magnificamente la vita di don Pino: «dare la vita per i propri amici». Perché don Pino ha dato, senza alcun dubbio, la vita per i propri amici.
E chi sono stati i suoi amici? I suoi amici siete stati, per primi, voi palermitani. Mi ha sempre colpito come qui a Palermo don Pino Puglisi venisse chiamato «padre» e che lui stesso amava questo appellativo: «Padre Pino Puglisi». Benché non fosse un religioso ma un sacerdote diocesano, tutti lo chiamavano «padre». Ed egli è stato veramente un padre per moltissime persone: per i seminaristi, per i parrocchiani, per i poveri e soprattutto per i suoi giovani.
I giovani erano il suo tesoro. Un tesoro da custodire e soprattutto da preservare dagli inganni suadenti e dalle scorciatoie promesse dai malavitosi. In una terra di miseria e disoccupazione, Puglisi intuì, come don Milani, che era fondamentale fornire dignità ai poveri partendo dall’educazione. Già negli anni del seminario matura una vocazione educativa e riesce a mettersi in contatto con i ragazzi più giovani. Ma è soprattutto da parroco, dopo essere stato ordinato nel 1960 a Palermo, che mette subito in mostra le sue qualità nello sviluppo della pastorale giovanile.
Qualità che sono degli autentici doni del Signore che lo fanno entrare in una relazione di empatia e comunione fortissima con i suoi giovani ai quali sapeva trasmettere curiosità e gioia di vivere.
Egli toglieva i bambini e gli adolescenti dalla strada e li sottraeva alla mafia. E le famiglie erano ben felici di mandarli da lui non solo al catechismo ma anche al dopo scuola. Il motto di don Pino era «Sì, ma verso dove?». Don Pino con quella domanda indicava una direzione certa: verso Dio e verso i poveri. Ai suoi giovani chiedeva: «Venti, sessanta, cento anni; la vita. A che serve se sbagliamo direzione?». E poi concludeva: «Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che salva».
Don Pino è stato dunque un «padre» autorevole perché è stato, prima di tutto un grande uomo e un grande prete: un uomo mite e gioioso, che cercava il dialogo e che faceva dell’accoglienza un tratto caratteristico della sua esistenza; un sacerdote autentico, sincero e caritatevole.
Egli era un prete che «abitava il territorio». Abitava le periferie, viveva le frontiere. In quelle frontiere, che oggi sono troppo spesso al centro delle polemiche, don Pino invece viveva quotidianamente per stare accanto ai poveri e ai disperati e prendersi cura di loro. Abitava la frontiera senza paura. Anzi, egli è stato un prete che faceva paura alla mafia perché predicava l’amore e smascherava ciò che si celava dietro al codice d’onore mafioso.

Il martire
Come ha scritto padre Bartolomeo Sorge, è senza dubbio riduttivo definire don Puglisi solamente come «un prete antimafia». Non si può ridurre la sua grande figura soltanto all’impegno sociale, perché egli è stato, prima di tutto, un prete palermitano che si è fatto annunciatore del Vangelo con semplicità e purezza di cuore. E proprio in virtù di questa purezza, in virtù di questo amore gratuito che testimoniava in ogni momento della vita, don Pino ha combattuto per riaffermare la sacralità della vita umana, l’innata dignità di ogni uomo, creato a immagine del Padre. Ha lottato per la giustizia perché i suoi giovani e i suoi poveri potessero vivere liberi dalla paura e dal ricatto della mafia. Tra il 1991 e il 1993 don Puglisi poté avvalersi della preziosa collaborazione di suor Carolina Iavazzo. Una sorta di angelo custode che lo aiutò nel compito più difficile: coinvolgere nella sua attività pastorale non solo i bambini ma anche le bambine più fragili e drammaticamente avviate a percorrere una strada di schiavitù e afflizione.
Annunciare il Vangelo dell’amore e della libertà dei figli di Dio lo ha portato alla testimonianza più autentica: lo ha portato al martirio. In un intervento a Trento nell’agosto del 1991 ebbe a dire: «Se vogliamo essere discepoli di Gesù, dobbiamo diventare testimoni della risurrezione». E poi aggiunse: «Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza». Parole profetiche che sintetizzano alla perfezione la sua vita.
Don Pino riesce ad inaugurare il Centro Padre Nostro il 29 gennaio 1993. Pochi mesi dopo, dopo numerosi avvertimenti mafiosi, lo stesso giorno del suo compleanno, il 15 settembre, venne ucciso in modo spietato. Un esecuzione fredda compiuta in odio alla fede. Perché, come ammise uno dei suoi killer, era diventato una «spina nel fianco» del sistema malavitoso. Con le sue prediche «prendeva i ragazzini e li toglieva dalla strada». È stato ucciso, dunque, per la sua attività pastorale. Una «felice colpa» che nel maggio del 2013 lo ha fatto diventare beato e martire.
È stato detto che don Pino è il «martire della mitezza». Una persona che ha continuato a testimoniare Cristo senza «lasciarsi scoraggiare dall’irruzione del male» che ogni giorno si avvicinava di più alla sua persona. Non ha risposto con il male all’odio che gli veniva annunciato. Ha continuato a dare testimonianza nella quotidianità. Egli, ha scritto mons. Vincenzo Bertolone, «era solamente un prete» che «incarnava» nel rione Brancaccio «una forza invisibile. Tale forza era la sua fede, che si traduceva in un’eccezionale azione evangelizzatrice, la quale sottraeva progressivamente ai capi e ai capi dei capi il vero controllo sul territorio e sulla gente, soprattutto sui giovani».
Un esempio vivo che trionfa
 
Si legge nel libro del Profeta Isaia: «Saprai che io sono il Signore, il tuo salvatore (…). Non si sentirà più parlare di prepotenza nella tua terra». La Scrittura afferma senza fraintendimenti che non ci può essere alcun legame fra il Signore e chi fa della prepotenza, della sopraffazione, dell’odio, della violenza la sua ragione d’essere. Il magistero della Chiesa sulle organizzazioni malavitose è estremamente chiaro. San Giovanni Paolo II ha chiesto a gran voce ai mafiosi di convertirsi perché «verrà il giudizio di Dio». Benedetto XVI proprio qui a Palermo ha ribadito che la mafia è «incompatibile» con il Vangelo. Papa Francesco nella piana di Sibari ha affermato con la sua voce profetica che la malavita «è adorazione del male e disprezzo del bene comune» e che, soprattutto, quegli uomini che «vivono di malaffare e violenza» non sono in comunione con Dio e quindi sono «scomunicati».
Mi permetto di aggiungere che chi è un discepolo di Cristo, chi è figlio della luce è tenuto a denunciare le tenebre, quindi le organizzazioni criminali. Denunciarle con le parole, con i gesti, con la sua testimonianza, ma anche rivolgendosi alle forze dell’ordine e alla magistratura che in questo territorio, come nel resto dell’Italia, hanno pagato anche con il sangue il loro impegno contro l’illegalità: oltre a Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che sono stati uccisi qui a Palermo, vorrei ricordare il giudice «ragazzino» Rosario Livatino di cui è in corso il processo di beatificazione.
Nella sequenza che viene pronunciata prima del Vangelo del giorno di Pasqua si legge: «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello». E poco dopo si può leggere ancora: «Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa». Ecco, oggi possiamo dire che queste parole si sono incarnate anche in Padre Puglisi. Egli è morto, eppure il suo esempio è «vivo» e «trionfa».
Tuttavia, non dobbiamo correre il rischio di trasformare il beato Puglisi in un «santino», un nome da richiamare qualche volta magari per sentirci con la coscienza a posto. Don Pino, infatti, ci parla ancora oggi dal cielo. E ci dice molte cose. Come Maria ai piedi della Croce, ci esorta a dire il nostro «sì» al Signore e il nostro «no» fermo a ogni forma di criminalità; e poi ci chiede di impegnarci nell’educazione alla «vita buona» che è legalità, apertura dell’altro, rispetto delle regole e della convivenza civile.
 
Una preziosa eredità
 
Accanto a questa importante eredità spirituale che ho appena richiamato, don Pino ci lascia anche una preziosa eredità civile. Che vorrei riassumere con una frase: con la mafia non si convive. Fra la mafia e il Vangelo non può esserci alcuna convivenza o tantomeno connivenza. Non può esserci alcun contatto ne alcun deprecabile inchino.
So bene che le organizzazioni criminali per realizzare i loro progetti creano un clima di paura che sfrutta la miseria e la disoccupazione, la disperazione sociale e l’assenza della certezza del diritto. Proprio per questo è assolutamente necessaria la presenza dello Stato. Una presenza forte, autorevole e soprattutto educativa. La Chiesa è, da sempre, presente con le sue molte realtà parrocchiali e associative. E la testimonianza di don Puglisi ne è un esempio indelebile.
Carissimi fratelli e sorelle, il beato Pino Puglisi è stato un padre e lo è ancora adesso per la sua testimonianza limpida e coraggiosa del Signore risorto e per il suo esempio di prete e di uomo che ha dato la vita perché si affermasse la giustizia oltre ogni forma di sopruso e ricatto. Don Puglisi è uno dei padri di Palermo e, aggiungerei, anche di tutte quelle zone del nostro Paese dove è presente la criminalità organizzata che, come Chiesa siamo chiamati a respingere con la forza del Vangelo.

Padre Pino Puglisi è stato senza dubbio un figlio coraggioso della «Chiesa che parla» e che non sta in silenzio; di una Chiesa che non si inchina davanti a nessuno, ma che si inginocchia solo davanti a Gesù Cristo crocifisso e ai poveri per lavar loro i piedi, come ha fatto il Beato martire Puglisi.

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