«Ogni giorno è il ripetersi di un dolore, un dito che si muove nella piaga, Ogni giorno è un pensiero intenso». Franco Puglisi parla al presente di suo fratello Giuseppe, don Pino, il parroco ucciso dalla mafia, Anche se sono trascorsi trent’anni da quel 15 settembre 1993. «Un dolore grande che si rinnova non solo perché ho perso un fratello, ma perché alcuni dei suoi sogni per Brancaccio non sono stati realizzati. E perché gli uomini della Chiesa devono fare ancora un lungo cammino per essere come lui».
Trent’anni dopo, cos’è Brancaccio, la periferia per la quale si batté a lungo, spesso in solitudine, sostenuto soltanto dai cittadini del comitato intercondominiale di via Hazon?
Ritengo che le istituzioni non si siano impegnate abbastanza per quel quartiere simbolo del degrado di Palermo. Era una zona isolata, tale è destinata a restare fino a quando non verrà realizzata la grande piazza: il progetto è sulla carta ormai da anni, mente tanti annunci altisonanti si sono susseguiti. Intanto, la gente di Brancaccio attende ancora l’asolo nido per il quale mio fratello si era tanto battuto come una priorità per la comunità. E poi, manca un progetto complessivo di sviluppo di un pezzo di città: non basta aver realizzato dopo la morte di mio fratello una scuola media o altri servizi che non c’erano. Bisogna ridare speranza alla gente».
Cosa le manca di più di un suo fratello?
«Veniva spesso a casa nostra, la domenica, e la sua compagnia era piacevolissima: il buonumore, l’ironia, le battute animavano le nostre vite. Vivevamo nell’attesa di una sua nuova visita. E in quei momenti non era il sacerdote. Era il fratello, lo zio, il cognato. Si parlava di religione solo se glielo chiedevamo. Per me era anche il punto di riferimento come prete. Dopo la sua morte, ho cercato un altro sacerdote che potesse essere un punto di riferimento per la mia vita spirituale».
L’ha trovato?
«No. Io ho sempre pensato che esistano due categorie di preti: quelli per vocazione e quelli per mestiere. I primi sono davvero pochi, gli altri sono moltissimi».
La Chiesa ha intrapreso un difficile cammino dopo la morte di don Pino. C’erano da recuperare anni di silenzio e di indifferenza sul tema dell’impegno contro la mafia. Secondo lei, a che punto è questo percorso?
«Credo che ci sia ancora tanto da fare per rendere moderna questa Chiesa: è l’impegno di Papa Francesco, fra tante difficoltà e resistenze. Ma ormai è un cammino intrapreso, il messaggio di don Pino Puglisi è un punto di riferimento chiaro, il suo martirio indica una strada di impegno verso gli ultimi e il territorio. Indietro non si può più tornare».
Suo fratello era impegnato in particolar modo nella formazione dei futuri sacerdoti. Pensa che il tema della formazione sia ancora una questione centrale nella chiesa?
«Lui diceva con una battuta: “Meglio un buon padre di famiglia che un cattivo prete”. Come ogni sua battuta, era una riflessione profonda sul senso delle cose. La chiesa ha bisogno di sacerdoti che credano davvero nella propria missione: ogni giorno, senza paura, senza tentennamenti, senza mezze misure. Era il modello che incarnava anche il cardinale Salvatore Pappalardo, che aveva sempre parole chiare e azioni concrete in questa città: deve continuare a essere un punto di riferimento».
Nel dibattito sulla modernità della Chiesa ha fatto discutere l’esposizione di alcune reliquie quando il corpo di don Pino è stato spostato in Cattedrale. Cosa ne pensa di quelle reliquie che vengono portate in giro per l’adorazione?
«Mi è sembrato un atto di barbarie prendere pezzi del corpo di mio fratello. Usanze di una Chiesa antica: non dovrebbe essere questo il modo con cui si adora un santo. Piuttosto, bisognerebbe ogni giorno impegnarsi per essere come lui, per proseguire la sua opera. Abbiamo tanto bisogno di una Chiesa che si spenda per gli ultimi. Troppo facile mettere don Pino Puglisi su un altare per farne un santino».
In quella sua ultima estate del 1993 don Pino aveva ricevuto delle minacce, sapeva di essere nel mirino della mafia. Gliene parlò mai?
«Non ci disse mai nulla. Come non disse nulla ai suoi collaboratori, ai ragazzi che lo sostenevano nelle attività di parrocchia. Era un modo per proteggerli. Sapeva di andare incontro alla morte e non si sottrasse alla sua missione di sacerdote a Brancaccio. Martire per liberare questa città».
Qual è il messaggio che don Pino Puglisi lascia alla comunità religiosa ma anche a quella civile?
«Il suo sacrificio ci dice che bisogna fare di più e meglio. Perché in questi trent’anni tante cose sono state realizzate a Brancaccio, ma c’è ancora tanto da fare. E non dobbiamo dimenticare che sono stati i volontari del Centro Padre Nostre il motore di tante iniziative: una presenza importante, che ha spesso supplite alle tante assenze delle istituzioni. Mentre il territorio continuava a essere martoriato dalla presenza della mafia, che non smette di esercitare pressioni, nella società ma anche nella Chiesa».
«Ogni giorno è il ripetersi di un dolore, un dito che si muove nella piaga. Ogni giorno è un pensiero intenso». Franco Puglisi parla al presente di suo fratello Giuseppe, don Pino, il parroco ucciso dalla mafia. Anche se sono trascorsi trent’anni da quel 15 settembre 1993. «Un dolore grande che si rinnova non solo perché ha perso un fratello, ma perché alcuni dei suoi sogni per Brancaccio non sono stati realizzati. E perché gli uomini della Chiesa devono fare ancora un lungo cammino per essere come lui».
di Salvo Palazzolo
XXX anniversario | martirio | padre pino puglisi | Segnala | Commenta |
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