Nei giorni delle minacce, padre Pino Puglisi si trovò al tavolo di una pizzeria con i suoi collaboratori. La paura si toccava con mano dopo gli attentati. A fine giugno 1993 erano state incendiate nella stessa notte le porte di casa di tre volontari del Comitato intercondominiale di Brancaccio. Padre Puglisi prese un pacchetto di stuzzicadenti, di quelli cilindrici, di plastica. Ne tirò fuori uno e disse a un amico: «Spezzalo!». E quello lo ruppe. Poi ne prese due insieme e disse: «Spezza questi due». E quelli li spezzò con le mani. Infine padre Puglisi prese il mucchio degli altri stuzzicadenti e concluse: «Ora prova a spezzare tutti questi insieme!» Insomma, voleva dire con un semplice esempio: l’unione fa la forza, stiamo tutti, non facciamo dilagare il panico. Per dirla con la sua frase più famosa: “Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto”. Per questo la mafia dovette fermarlo, il 15 settembre 1993: un sacrificio da ricordare. Per i 25 anni c’è stata la storica visita a Palermo di Papa Francesco, per i 30 anni oggi il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, con tutti i vescovi siciliano lo commemorerà in Cattedrale dove è allestita anche una mostra. Previsti in questi giorni pure concerti, momenti di preghiera e riflessione per un omaggio corale. Cosa stava facendo don Pino nel 1993 di tanto pericoloso per la mafia? La gente di Brancaccio si stava unendo, cresceva una nuova cultura della legalità illuminata dalla fede: ancora poco tempo e nessuno sarebbe più riuscito a spezzare la schiena ai volontari. «Non dobbiamo tacere», diceva don Pino ai parrocchiani. E aggiungeva, citando San Paolo, “si Deus nobiscum, quis contra nos?». Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? La mafia ebbe paura del fatto che «si portava i picciriddi cu iddu» (i bambini con lui) «predicava tutta a iurnata» (predicava tutto il giorno).
Parole del boss Leoluca Bagarella, il capo dei capi nel 1993 dopo la cattura di Totò Riina, suo cognato, riferite da collaboratori di giustizia nei processi. Questo era già sufficiente alla mafia per toglierlo di mezzo e proseguire sulla via della violenza e dei “piccioli”; il denaro in dialetto, espressione che Papa Francesco ha voluto utilizzare durante la sua omelia del 15 settembre 2018 davanti a 100 mila persone al Foro Italico di Palermo. Ma non solo. Don Pino aveva sbarrato la strada ai politici collusi del quartiere, aveva vietato le feste che servivano solo ad omaggiare il potere dei boss, aveva cambiato il percorso delle processioni per non dover fare «l’inchino» sotto i balconi dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, condannati in via definitiva come mandanti del delitto. Non a caso incontrando, incontrando il clero in cattedrale, nel 2018 il Papa ha proprio chiesto di mantenere alta l’attenzione sui percorsi delle processioni per evitare questi “inchini”. Don Pino lo faceva già agli inizi degli anni Novanta.
Credeva nello Stato e allo Stato chiedeva una scuola media, servizi per il quartiere, uno spazio per gli anziani, impianti sportivi. Nel quartiere, però, in quell’epoca non si muoveva foglia senza il permesso dei boss. Un solo esempio: gli scantinati di via Hazon, che don Pino voleva utilizzare per creare la scuola, ospitarono l’esplosivo destinato a Paolo Borsellino. Anche Totò Riina, intercettato in carcere, sottolineò come don Pino contendesse il territorio palmo a palmo alla mafia. «Tutte cose voleva fare iddu – disse Riina -, la nuova Chiesa, il campo, i giochi per i picciriddi, ma noi gli dicevamo tu fatti i fatti tuoi, ma tu fatti u parrinu». Don Pino invece non si faceva i fatti propri, non lavorava all’ombra del campanile ma andava a cercare le pecorelle nei vicoli. Un parroco scomodo e povero, di periferia, che oggi Francesco addita a modello per i sacerdoti sottolineando che «non viveva di appelli antimafia», cioè non cercava passerelle, ma operava nel concreto, producendo fatti e non parole. Consumando la suola delle scarpe e conoscendo l’odore delle sue pecore. Trent’anni fa lo hanno ucciso. Ma don Pino non è mai veramente morto.
Tgs dedicherà oggi la programmazione pomeridiana alla figura del sacerdote, oggi beato. Alle 16:25 sarà trasmesso il fimo «L’ultimo sorriso», un cine-ritratto di don Pino Puglisi firmato da Sergio Quartana e Rosalinda Ferrante. Subito dopo, alle 17:30, andrà in onda in diretta «Padre Pino Puglisi. La sfida di un sorriso». Nel programma, a cura della redazione di Tgs, saranno mostrati documenti, immagini e interviste a familiari e amici. All’interno del programma condotta da Giovanni Villino, sarà anche trasmessa in diretta dalle 18 la messa in Cattedrale presieduta dal Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, con tutti i vescovi siciliani. In studio don Cosimo Scordato, don Franco Romano e Anna Alonzo.
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Don Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitana di Brancaccio, cortile Faraone numero 8, il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio, Carmelo, e di una sarta, Giuseppa Fana, e viene ucciso dalla mafia nella stessa borgata il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno.
Entra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960 nella chiesa-santuario della Madonna dei rimedi (piazza Indipendenza). Nel 1961 viene nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del SS.mo Salvatore nella borgata di Settecannoli, limitrofa a Brancaccio, e dal 27 novembre 1964 opera anche come rettore nella vicina chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi a Romagnolo.
Inizia anche l’insegnamento professionale Einaudi (1962-63 e 64-66) alla media Archimede (63-64 e 66-72), alla media di Villafrati (70-75) e infine al liceo classico Vittorio Emanuele II (78-93). Nel 1967 è stato nominato cappellano presso l’istituto per orfani “Roosevelt” all’Addaura e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi.
Nel1969 è nominato vicerettore del seminario arcivescovile minore. Nel settembre di quell’anno partecipa a una missione nel paese di Montevago, colpito dal terremoto. Sin da questi anni segue in particolare modo i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città. Segue con attenzione i lavori del Concilio Vaticano II e ne diffonde subito i documenti tra i fedeli, con speciale riguardo al rinnovamento della liturgia, al ruolo dei laici, ai valori dell’ecumenismo e delle chiese locali. Il primo ottobre 1970 viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese in provincia di Palermo – segnato da una sanguinosa faida – ove rimane fino al 31 luglio 1978, riuscendo a riconciliare le famiglie dilaniate dalla violenza con la forza del perdono. Il 9 agosto 1978 è nominato pro-rettore del seminario minore di Palermo e il 2 novembre dell’anno seguente è scelto dall’arcivescovo Salvatore Pappalardo come direttore del Centro diocesano vocazioni. IL 29 settembre 1990 viene nominato parroco San Gaetano, a Brancaccio. Il 29 gennaio 1993 inaugura il centro “Padre Nostro”, che diventa il punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere. In questo periodo viene aiutato anche da un gruppo di suore, tra cui suor Carolina Iavazzo, e dal viceparroco, Gregorio Porcaro. Collabora con i laici del Comitato Intercondominiale per rivendicare i diritti civili della borgata. Viene ucciso sotto casa da killer di mafia, in piazzale Anita Garibaldi 5, il giorno del compleanno, 15 settembre 1993. La sua salma si trova oggi in Cattedrale. Il 25 maggio 2013 la beatificazione al Foro Italico di Palermo. Il 15 settembre 2018 gli ha reso omaggio Papa Francesco durante la sua visita a Palermo a 25 anni dal delitto.
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Per l’omicidio di don Giuseppe Puglisi sono stati istruiti a Palermo due processi già arrivati da tempo alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Come esecutori il carcere a vita è stato inflitto a Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone. L’uomo che ha sparato a don Puglisi, Salvatore Grigoli, ha deciso di collaborare con la giustizia subito dopo l’arresto. Con gli sconti di pena, ha avuto una condanna a 18 anni. Nel luglio del 2004 ha ottenuto gli attesti domiciliari e poi altri benefici per il suo contributo alla giustizia. Nel 2008 anche Gaspare Spatuzza ha iniziato a collaborare con i magistrati.
Il movente è l’atmosfera di quei mesi sono stati così descritti da un altro pentito, Giovanni Drago, con il suo linguaggio crudo che riassume lo stupore e la rabbia dei boss. “Il prete era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva manifestazioni, diceva che si doveva distruggere la mafia. Insomma ogni giorno martellava, martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo”, La decisione di ucciderlo fu avallata dai massimi vertici di Cosa Nostra dell’epoca. Altri collaboratori di giustizia riferiscono che Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, giustificò la scelta dei fratelli Graviano di eliminare il sacerdote perché “predicava tutta ‘arnata (la giornata) e “si purtava i picciotti cu iddu” (portava con sé i ragazzini del quartiere). Lo stesso Riina, in una intercettazione in carcere del settembre 2013 dice che padre Puglisi “voleva comandare il quartiere. Ma tu fatti u parrinu, pensa alle messe, lasciali stare…il territorio… il campo… la Chiesa…Cose da non crederci. Tutte cose voleva fare iddu nel territorio”. Nelle motivazioni della sentenza della seconda sezione della Corte d’Assise di Palermo (presidente Vincenzo Oliveri, giudice a latere estensore Mirella Agliastro) si riassume così – tenendo conto del contributo di pm, testimoni e collaboratori – il movente del delitto e lo scenario di Brancaccio (il documento è depositato in cancelleria in data 19 giugno 1998): “Emerge la figura di un prete che infaticabilmente operava sul territorio, fuori dall’ombra del campanile… L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona, contro cui il prete mostrava di essere uno dei più tenaci e indomiti oppositori”.
Giuseppe e Filippo Graviano mandati, esecutori Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli e gli altri uomini del gruppo di fuoco di Brancaccio: sono stati condannati con sentenze definitive per l’omicidio di padre Puglisi ma anche per le bombe dell’estate del ’93 tra Firenze, Roma e Milano. Gli stessi uomini lanciarono quindi la strategia della tensione con gli attentati ed eliminarono il parroco di Brancaccio (il 15 settembre). In questo crocevia della Storia si trovò il parroco di Brancaccio: le ricostruzioni più aggiornate tendono a inserire il delitto in una strategia di intimidazione e vendetta della mafia contro la Chiesa, un bersaglio inedito che si affiancò allo Stato, “reo” di avere reagito duramente all’eliminazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Alla Chiesa si rimproverava invece la svolta di Giovanni Paolo II e il suo anatema nella Valle dei Templi. Le intercettazioni di Totò Riina in carcere hanno d’altronde rivelato l’ira e l’odio del “capo dei capi” sia contro Papa Wojtyla per la sua presa di posizione ad Agrigento che contro padre Puglisi che operava nel territorio mettendo in discussione il potere del clan di Brancaccio. Altre intercettazioni rese note in passato segnalavano che l’anatema di Wojtyla venne considerata una “sbrasata” (uno sconfinamento, una sbruffonata) da boss vicini a Bernardo Provenzano. Collaboratori di giustizia hanno riferito che in quel periodo del ’93 i fratelli Graviano “facevano discorsi accaniti contro la Chiesa”.
Già subito dopo il delitto Puglisi non mancarono i collegamenti con le bombe dell’estate del ’93. Fu il cardinale Camillo Ruini, il 20 settembre, a parlare esplicitamente di un legame nelle strategie della mafia fra il delitto Puglisi e gli attentati (che avevano tra l’altro colpito San Giovanni in Laterano, che era la sua sede in quanto vicario del Papa a Roma). Parlando a Siena, all’incontro autunnale della Conferenza episcopale, il Cardinale disse: “Don Puglisi era un prete esemplare che ha testimoniato con la realtà della sua vita e della sua stessa morte come la Chiesa sulla via che conduce da Cristo all’uomo non possa essere fermata da nessuno”. Proseguì poi il presidente della Cei: “Non solo a Palermo una mano criminale ha colpito direttamente la Chiesa ma anche nella capitale. San Giovanni è il cuore della Roma Cristiana. Non consideriamo questi attacchi alla Chiesa come disgiunti degli altri che hanno ancora insanguinato il nostro Paese. Vi è infatti non solo una unità nel disegno criminale, ma anche un intimo legame tra la Chiesa e l’Italia”. L’analisi si allargava infine al vorticoso periodo di Tangentopoli dell’epoca: “La Chiesa andrà avanti annunciando il Vangelo, quale che sia il prezzo da pagare. Per quanto riguarda l’Italia siamo entrati in una fase nuova della nostra storia, nella quale – giorno dopo giorno – quella che viene chiamata questione morale si rivela più ampia, più profonda, più radicale”. Parole di attualità anche oggi.
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Nel 1993 la valenza del delitto Puglisi venne subito valutata con piena consapevolezza dalla Chiesa nella sua portata intimidatrice a pochi mesi dall’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi. Il 17 settembre è lo stesso Wojtyla a ricordare don Pino con queste parole: “In questo luogo di pace e di preghiera, non posso che esprimere il dolore con il quale ho appreso ieri mattina la notizia dell’uccisione di un sacerdote di Palermo, don Giuseppe Puglisi. Elevo la mia voce per deplorare che un sacerdote impegnato nell’annuncio del Vangelo e nell’aiutare i fratelli a vivere onestamente, ad amare Dio e il prossimo, sia stato barbaramente eliminato. Mentre imploro Dio il premio eterno per questo generoso ministro di Cristo, invito i responsabili di questo delitto a ravvedersi e a convertirsi. Che il sangue innocente di questo sacerdote porti pace alla cara Sicilia”. Nel maggio ’96 il nuovo arcivescovo di Palermo, Salvatore De Giorgi, mostrò subito di ben conoscere la storia e l’itinerario di don Puglisi: nel primo messaggio, inviato alla città dopo la nomina, citò il parroco di Brancaccio additandolo a “esempio per tutta la nostra comunità”. Nel settembre ’97 in Cattedrale lo accomunò a Madre Teresa di Calcutta, da poco scomparsa, e li definì entrambi “testimoni credibili e coraggiosi della speranza che non delude”. L’anno dopo (1998) si compiono i cinque anni della morte, termine minimo per l’avvio delle procedure canoniche. E il cardinale De Giorgi dà l’annuncio della decisione presa nel corso dell’omelia per il 25° anniversario della sua ordinazione episcopale (29 dicembre ’98). Il 22 febbraio ’99 nomina la commissione diocesana e il 15 luglio – durante la processione per Santa Rosalia – comunica ai fedeli di aver chiesto alla Santa Sede il nulla osta all’avvio ufficiale del “processo”. Nulla osta che arriva pochi prima del sesto anniversario. Il 15 settembre 1999 si insedia il Tribunale ecclesiastico. I componenti del Tribunale sono: don Giorgio Scimeca (delegato arcivescovile), mons. Domenico Mogavero (postulatore), don Vincenzo Talluto (promotore di giustizia), Agostina Ajello (notaio). I componenti della commissione diocesana per l’istruttoria preliminare sono: Salvatore Di Cristina, don Francesco Michele Stabile, mons. Carmelo Cuttitta, don Giorgio Scimeca, Agostina Ajello e il giornalista Francesco Deliziosi. Nel 2001 l’incartamento è stato inviato alla Congregazione per le cause dei Santi in Vaticano che ha richiesto ulteriori integrazioni.
Nel 2010 è stato nominato dal cardinale Paolo Romeo il nuovo postulatore, mons. Vincenzo Bertolone, che ha saputo rispondere a tutte le richieste di chiarimento della Congregazione producendo nuovi documenti e testimonianze con la “Responsio”. A giugno del 2012 la Congregazione ha dato l’assenso finale alla promulgazione del decreto per il riconoscimento del martirio di don Puglisi. Il 25 maggio 2013 è avvenuta la beatificazione al Foro Italico di Palermo.
L’attuale arcivescovo, Corrado Lorefice – che ha collaborato da giovane sacerdote con Puglisi nel campo della pastorale vocazionale – ha messo il suo ministero sotto la benedizione del Beato e ha dato spinta a tutta una serie di iniziative in sua memoria, tra cui il Centro diocesano intitolato a don Pino Puglisi che coordina le manifestazioni e gli eventi e l’archivio dei documenti (il direttore è Annamaria Abramonte). Don Giuseppe Puglisi è la prima vittima della mafia a essere proclamata martire della Chiesa cattolica. La seconda è il giudice Rosario Livatino.
“Egli aveva un cuore che ardeva di autentica carità pastorale; nel suo zelante ministero ha dato largo spazio all’educazione dei ragazzi e dei giovani…imitatelo, è stato come il Buon Pastore evangelico. Popolo di Sicilia, guarda con speranza al tuo futuro! Fa’ emergere in tutta la sua luce il bene che vuoi, che cerchi e che hai! Vivi con coraggio i valori del Vangelo per far risplendere la luce del bene! Con la forza di Dio tutto è possibile!”: parole di Papa Benedetto XVI su padre Pino Puglisi, pronunciate durante la sua visita a Palermo il 3 ottobre 2010. Benedetto XVI ha seguito in prima persona l’iter verso la beatificazione.
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Per gentile concessione della casa editrice Rizzoli pubblichiamo la prefazione di don Corrado Lorefice al libro “Se ognuno fa qualcosa si può fare molto” del giornalista Francesco Deliziosi, caporedattore del Giornale di Sicilia. Nel volume per la prima volta sono raccolti e commentati tutti gli scritti del sacerdote-martire. Il giornalista è anche autore per Rizzoli della biografia “Pino Puglisi – il prete che fece tremare la mafia con un sorriso” (prefazione di don Luigi Ciotti) aggiornata con la storia della causa di beatificazione. I diritti d’autore sono devoluti in beneficenza.
A trent’anni dal martirio di padre Pino Puglisi giunge a tutti noi un dono ricco e fecondo: si tratta di questo importante e prezioso libro curato da Francesco Deliziosi, giornalista palermitano, che è stato alunno prima e collaboratore poi di padre Pino, particolarmente negli anni ultimi di vita, caratterizzati dal suo ministero pastorale presso la comunità parrocchiale di Brancaccio, laddove egli suggellò la sua esistenza con la palma del martirio, offrendo la vita per il suo popolo, quale mite agnello immolato ad immagine del Cristo. Deliziosi non è certo nuovo a fatiche di questo tipo, avendo riflettuto, ricercato e scritto sul martire siciliano fin dal momento immediatamente seguente alla sua uccisione per mano mafiosa. Potremmo dire che non si tratta di una nuova opera sul presbitero palermitano, che si aggiunge alle numerose altre che diversi autori hanno proposto in questo quarto di secolo, ma di un’”opera nuova” in quanto l’intento precipuo di Deliziosi è quello di permettere al lettore di attingere direttamente agli scritti di padre Pino, per mostrarne il pensiero sapiente, il cammino cristiano e presbiterale, nonché ciò che lo contraddistingue in maniera del tutto particolare ed originale: l suo essere educatore dei ragazzi e dei giovani. Avere a disposizione tanto materiale di prima mano, rende possibile entrare in dialogo con questo straordinario presbitero della nostra Chiesa, apprezzarne le lucide riflessioni, condividerne le paterne preoccupazioni, lasciarsi guidare e orientare dalla sua sapienza pedagogica, tutta intrisa di Vangelo. C’è un chiaro intreccio, ormai da tutti riconosciuto, tra l’opera educativa di padre Puglisi e la sua vicenda biografica, che lo ha visto pienamente incarnato nella vita sociale ed ecclesiale della sua città e di tutta l’Isola. Sia nella veste di animatore vocazionale, sia nel suo ministero di parroco, padre Pino si rivela attento lettore del vissuto reale dei destinatari del suo servizio. La sua proposta vocazionale o le sue scelte pastorali restano sempre segnate dalla provocazione che sale dalla realtà siciliana, appesantita dalla diffusa mentalità e prassi mafiosa. Illuminante, a tal proposito, una sua riflessione in merito al fenomeno mafioso: «Malgrado tutte le sue mimetizzazioni, si tratta di una cultura e di una mentalità antievangelica e anticristiana, addirittura, per tanti aspetti, satanica: essa falsa termini che indicano valori positivi e cristiani come “famiglia”, “amicizia”, “solidarietà”, “onore”, “dignità”; li distorce e li carica di significati diametralmente opposti a quelli cristiani. […] Ora questa “cultura”, lentamente e insensibilmente viene assorbita dalla gente dei nostri paesi, pure estranea alla “società della mafia”, pure ricca di tanti valori e convive in tutta buona fede con forme di religiosità tradizionali e devozionali». Nella vita e nel ministero del mite presbitero palermitano troviamo una spiccata sensibilità verso i temi della non violenza, della giustizia e della pace, sempre affrontati alla luce del messaggio evangelico, ove trovava le necessarie energie per dare il suo fattivo e generoso apporto alla liberazione della sua gente da ogni forma di sopraffazione e schiavitù. I destinatari privilegiati dell’opera di padre Puglisi sono soprattutto le giovani generazioni, quanti cominciano a muovere i primi passi dentro il grande mistero della vita. E siccome essa è una traditio, una “consegna” non solo della conformazione biologica, ma soprattutto di ciò le da valore e significato, per il prete palermitano era urgente offrire un sano ambiente di vita e una chiara proposta formativa a chi, specialmente se posto in un contesto “antieducativo”, deve ancora apprendere l’arte del vivere. Si tratta, come lui stesso amava affermare, di prediligere la via dell’incarnazione, del coinvolgimento diretto e della condivisione per dare dei modelli di comportamento e per cercare di muovere tutto l’ambiente. L’opera che abbiamo tra le mani offre una profonda immersione nel lessico e nel vocabolario di padre Pino, ci permette di insieme a lui condiscepoli dell’unico maestro: Cristo Gesù. La ricchezza del materiale contenuto in questo volume rappresenta un’enorme fonte in cui poter attingere a piene mani, non solo per conoscere il pensiero e l’opera di padre Puglisi, ma anche per l’azione pastorale della Chiesa, impegnata spesso a fronteggiare problematiche uguali o simili rispetto a quelle del martire palermitano. Riteniamo, infatti, che questo libro costituisca un prezioso servizio a numerosi a livelli dell’agire ecclesiale, come anche di quello pedagogico-sociale. Penso particolarmente ai presbiteri, ai diaconi, ai diversi operatori pastorali, soprattutto a quelli impegnati nel campo vocazionale della catechesi, agli insegnanti e ai tanti educatori che si spendono a servizio delle giovani generazioni. Ma penso anche a tutti coloro che, impegnati nella politica e nel sociale, desiderano approcciare un illuminante modello pedagogico che offre preziose chiavi di lettura non solo sulla realtà palermitana, ma sulla società contemporanea, afflitta da svariati mali che la deturpano e la abbruttiscono. Una cosa emerge in tutta evidenza leggendo e rileggendo le pagine degli scritti di padre Pino Puglisi: il suo essere cristiano, prete ed educatore, e – come direbbe il poeta Mario Luzi- «lo conferma come compagno assente/ lo conferma nel suo carisma cristianamente». Con lui, amico e compagno di cammino di cammino, reso assente dalla violenza degli uomini ma palesemente presente a motivo del suo supremo atto d’amore, “reale memoriale” del martirio di Cristo, condividiamo la visione evangelica di una Chiesa in diaconia del mondo; di comunità cristiane fraterne, animate da preti che le aiutino a storicizzare creativamente l’unico ed esclusivo mandato che hanno l’obbligo di custodire e incrementare con solerte diligenza: condividere con tutti gli uomini, nella povertà dei mezzi e con la forza della mitezza, l’energia liberante e risanante dell’Evangelo del Regno.
Mons. Corrado Lorefice
Arcivescovo di Palermo
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Una lunga lettera indirizzata alla Chiesa di Palermo e a tutta la città. L’ha scritta Papa Francesco in occasione del trentesimo anniversario dell’omicidio di padre Pino Puglisi in cui ricorda anche il suo viaggio nel capoluogo siciliano in occasione del 25° del delitto.
Sono passati trent’anni dalla sera del 15 settembre 1993, quando il caro Don Pino Puglisi, sacerdote buono e testimone misericordioso del Padre, concluse tragicamente la sua esistenza terrena proprio in quel luogo dove aveva deciso di essere “operatore di pace”, spargendo il seme della Parola che salva, che annuncia amore e perdono in un territorio per molti “arido e “sassoso”, eppure lì il Signore ha fatto crescere assieme il “grano buono e la zizzania” (cfr Mt 13,24-30). Desidero unirmi a Voi spiritualmente in questa significativa ricorrenza e ringraziare il Dio di ogni consolazione per il dono del Beato Martire Don Pino Puglisi, figlio e pastore dell’amata Chiesa palermitana e dell’intera Sicilia. Nel giorno del compleanno, la mano omicida di un giovane lo uccise sulla strada. Le strade del quartiere erano la Chiesa da campo che ha servito con sacrificio e percorso durante il suo ministero pastorale per incontrare la gente, in una terra di lui conosciuta e che non si è mai stancato di curare e annaffiare con l’acqua rigenerante del Vangelo, affinché ognuno potesse dissetarsi e godere il refrigerio dell’anima per affrontare la durezza di una vita che non sempre è stata clemente.
Tutti ricordano ciò che egli rispose all’assassino:«Me l’aspettavo». E quindi sorrise: quel sorriso, che menzionai nell’omelia in occasione della mia visita a Palermo cinque anni orsono (S. Messa al Foro Italico), ci raggiunge come «una luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore». Sull’esempio di Gesù, Don Pino è andato fino in fondo nell’amore.
Possedeva i medesimi tratti del “buon pastore” mite e umile: i suoi ragazzi, che conosceva uno ad uno, sono la testimonianza di un uomo di Dio che ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare la vita e a rispettarla. Sovente ha gridato con semplicità evangelica il senso del suo instancabile impegno in difesa della famiglia, dei tanti bambini destinati troppo presto a divenire adulti e condannati alla sofferenza, nonché l’urgenza di comunicare loro i valori di una esistenza più dignitosa, strappandola così alla schiavitù del male. Questo sacerdote non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue. A Voi pastori alle cui mani il Signore ha affidato il suo popolo in codesta isola, così ricca di storia e crocevia di popoli e culture, rivolgo l’invito a non fermarvi di fronte alle numerose piaghe umane e sociali dell’ora presente, che ancora sanguinano e necessitano di essere sanate con l’olio della consolazione e il balsamo della compassione. È urgente l’opzione preferenziale verso i poveri; sono volti che ci interrogano e ci orientano alla profezia. Come Comunità ecclesiale in cammino tutto ciò interpella il vostro discernimento sinodale per avviare una pastorale rinnovata che corrisponda concretamente alle esigenze d’oggi. Vi esorto quindi a fare emergere la bellezza e la differenza del Vangelo, compiendo gesti e trovando linguaggi giusti per mostrare la tenerezza di Dio, la sua giustizia e la sua misericordia. Sono segni che il cristiano è chiamato a porre nella città degli uomini per illuminarla nella costruzione di una nuova umanità. Il Martire Don Pino possedeva una sapienza pratica e profonda al tempo stesso, infatti amava dire: “Se ognuno di noi fa qualcosa, allora possiamo fare molto”. Sia questo l’invito per ciascuno a saper superare le tante paure e resistenze personali e a collaborare insieme per edificare una società giusta e fraterna. Sappiamo bene quanto Don Pino si sia battuto perché nessuno si sentisse solo di fronte alla sfida del degrado e ai poteri occulti della criminalità; riconosciamo pure come l’isolamento, l’individualismo chiuso e omertoso siano armi potenti di chi vuole piegare gli altri ai propri interessi. La risposta è la comunione, il camminare insieme, il sentirsi corpo, membra unite al Capo (cfr lCor 12,12), al pastore e guida delle nostre anime (cfr lPt 2,25). Vivete concordemente in Cristo, prima di tutto all’interno del presbiterio, assieme al Vescovo e tra Voi, e «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (cfr Rm 12,10). Voi che quotidianamente sostenete le responsabilità del ministero sacerdotale a contatto con le realtà che abitano codesto territorio, siate sempre e ovunque immagine vera del Buon Pastore accogliente, abbiate il coraggio di osare senza timore e infondere speranza a quanti incontrate, specialmente i più deboli, gli ammalati, i sofferenti, i migranti, coloro che sono caduti e vogliono essere aiutati a rialzarsi. I giovani poi siano al centro delle vostre premure: sono la speranza del futuro. Il sorriso disarmante di P. Pino Puglisi Vi sproni ad essere discepoli lieti e audaci, disponibili anzitutto a quella costante conversione interiore che rende più pronti nel servire i fratelli, fedeli alle promesse sacerdotali e docili nell’ obbedienza alla Chiesa. Mentre affido tutti alla protezione della Vergine Maria e del Beato Martire Pino Puglisi, invio la mia Benedizione, chiedendovi, per favore, di non dimenticarVi di pregare per me.
Fraternamente
Roma, da San Giovanni in Laterano, 31 Luglio 2023, Memoria Liturgica di Sant’Ignazio di Loyola
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Qual è l’eredità di don Pino a trent’anni dalla morte? Don Puglisi fu precursore di diverse posizioni poi assunte ufficialmente dalla Chiesa. Sulla mafia padre Pino aveva le idee molto chiare. Tra i suoi scritti c’è una sua frase illuminante sull’essenza anti-cristiana del fenomeno: «Nella mafia si può riconoscere una di quelle strutture di peccato di cui parla Giovanni Paolo II nella Sollecitudo rei socialis (n.36), cioè quelle realtà peccaminose che partendo dalla responsabilità dei singoli si allargano, si consolidano, si stabilizzano come un peccato diffuso e diventano situazioni condizionanti la libertà o la condotta degli altri». E ancora: «Quella mafiosa non è solo una società (clan o cosca o famiglia), è a suo modo una cultura, un’etica, un linguaggio, un costume. Malgrado tutte le sue mimetizzazioni, si tratta di una cultura anti-evangelica e anti-cristiana, addirittura, per certi aspetti, satanica: essa stravolge termini che indicano valori positivi e cristiani come famiglia, amicizia, solidarietà, onore, dignità. Li carica di significati diametralmente opposti a quelli cristiani allo scopo di dominare con la prepotenza, la complicità, l’asservimento e il disprezzo dell’altro, il diritto-dovere di farsi giustizia da sé». Oggi che queste posizioni sono condivise da Papi e vescovi, si può dire che Puglisi col suo sacrificio ha donato alla sua Chiesa una maturazione di coscienza, una diversa e più avanzata valutazione del pericolo che rappresenta la mafia. Col suo sangue, ha lavato silenzi, sottovalutazioni e coabitazioni del passato. Ma ci sono anche altri esempi. Don Puglisi proprio nella prima Pasqua che vive a Brancaccio, nel ’91, cambia il percorso della processione, senza dirlo a nessuno, perché da uomo del quartiere sa benissimo che, passando per la via Brancaccio sotto il balcone della famiglia dei boss del quartiere, il rischio fosse che la processione con una sosta inopportuna servisse a rendere omaggio ai Graviano, a fare il famoso inchino di cui abbiamo visto e letto tanti esempi. L’argomento degli «inchini» è rimasto un po' dimenticato, ma negli anni invece la Chiesa siciliana lo ha messo all’ordino del giorno. Da alcuni anni a Palermo, ma anche in altre diocesi, i percorsi delle processioni vengono esaminati con attenzione e concordati, in qualche modo sottoposti all’attenzione anche delle forze dell’ordine e della Questura. In alcuni casi il percorso delle processioni è stato cambiato per evitare i rischi di passare sotto certi balconi. Quindi in qualche modo quello di Puglisi fu un gesto profetico. Terzo esempio. Mentre Puglisi era parroco, un gruppo di fedeli chiese di formare una confraternita. Il parroco conosceva molti di questi presunti fedeli e capì che in realtà dietro c’erano altri interessi. Quindi, fece una serie di riunioni e spiegò benissimo che cosa fosse una confraternita, a cosa servisse e che si trattava di un percorso di crescita spirituale. Tanto che a un certo punto i partecipanti, coloro che avevano fatto la richiesta, capirono la situazione e non si fecero più vedere. Quindi la confraternita non si formò più. Anche in questo caso l’arcivescovo Lorefice ha ripreso in qualche modo questa sollecitazione. Negli ultimi anni, c’è stata anche per le confraternite di Palermo una maggiore attenzione ai componenti, al fatto che ci fossero a volte partecipanti con precedenti penali e per mafia. Quindi, le confraternite sono state in qualche modo passate al setaccio per evitare il rischio di infiltrazioni. Naturalmente senza voler criminalizzare tutto il mondo delle confraternite, però alcuni casi sono emersi e la diocesi è intervenuta. Quindi anche questo è un altro gesto profetico di Puglisi.
In Cattedrale a Palermo è in corso una mostra biografica su Don Pino Puglisi. La mostra integra con alcuni nuovi pannelli quella precedente che fu curata da Lia Caldarella, Sergio Mammina e dai componenti della Commissione Diocesana. In questa edizione del 2023 sono stati aggiunti due nuovi pannelli che ricordano il giorno della Beatificazione, la venuta di Papa Francesco per il 25° anniversario del martirio e un terzo pannello intitolato “L’amore che si fa servizio” arricchito da una riproduzione della lavanda dei piedi di Pippo Madè. I nuovi pannelli sono stati curati da Lia Caldarella, Sergio Quartana, Maria Lo Presti, Padre Francesco Stabile e Giuseppe Maniaci.
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Ecco una raccolta delle frasi più celebri di don Pino Puglisi. Dalla mafia al senso della vita, dal dovere della solidarietà nei confronti degli emarginati al valore del sacrificio della vita. Da conservare e meditare.
LAVORARE PER IL REGNO DI DIO
«Non sono un biblista, non sono un teologo, un sociologo, sono uno che ha cercato solo di lavorare per il regno di Dio.»
CON TANTE SOFFERENZE HA SENSO PARLARE DI GIOIA?
«Il discorso della gioia credo che sia molto importante oggi. Noi ripetiamo tante volte le parole felici e beati. Ma con tante sofferenze e ingiustizie è possibile parlare di gioia? Noi siamo chiamati a scoprire i germi di bene che sono nel mondo, svilupparli in noi e negli altri e farli fruttificare, mettendo ovunque speranza. In questo contesto la gioia è possibile, non è un’alienazione, anzi è come un forte impulso che viene messo dentro di noi e ci dà la forza per andare avanti con speranza, per portare qualcosa di nuovo al mondo nel quale viviamo.»
CHI USA LA VIOLENZA NON È UN UOMO
«Spero che i protagonisti delle intimidazioni cambino modo di pensare e tornino alla ragionevolezza… Stiamo tentando di strappare i bambini di Brancaccio al loro triste destino, di comunicare loro valori nuovi rispetto a quelli trasmessi dalla strada: perché fermarci? Chi usa la violenza non è un uomo, si degrada da solo al rango di animale… chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi dell’umanità. Ma andiamo avanti perché, come diceva San Paolo: se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?»
INDICARE SEMPRE LA SPERANZA
«A chi è pieno di paure, di ansie e quindi non vuole muoversi, perché ha avuto esperienze negative, il testimone della speranza cerca di infondere certezza, risolutezza creativa, coraggiosa, indicando modi concreti e validi di servizio, facendo comprendere che la vita vale se donata. A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cos’è la speranza, ma chi è la speranza: la speranza è Cristo; e lo indica attraverso una propria vita orientata verso Cristo».
DARE LA VITA PER I FRATELLI
«Quando noi abbiamo paura scattano delle contrazioni sotto la pelle… Quando la paura è più forte, diventa angoscia, si rompono i capillari. Ecco perché si dice che Cristo sudò sangue… Sudò sangue per la paura umana del dolore. Tutto questo ci fa sentire Gesù vicino, come un fratello. Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio. Egli ha dato la sua vita per noi e anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli».
IL PERDONO
«Noi dobbiamo perdonare gli altri perché siamo stati perdonati e Dio ha verso di noi una grande generosità, perciò continua a donarci sempre il suo perdono».
NON SIAMO MAI AL CAPOLINEA
«Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetti d’amore. Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito e poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».
NON HO MAI CHIESTO DENARO
«Chi mi conosce lo sa: io non ho mai, dovunque sono stato, non ho mai chiesto denaro e mi ha fatto anche senso sentire rumore di denaro nella chiesa».
VALORE DEL MARTIRIO
«Certo, la testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio, infatti testimonianza in greco si dice martyrion. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio quello che dà valore alla testimonianza. San Matteo ci riferisce le parole all’inizio del Discorso della montagna, le Beatitudini, che si concludono così: “Sarete felici quando vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male di voi per causa mia; rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11). Per il discepolo testimone è proprio quello il segno più vero che la sua testimonianza è una testimonianza valida».
NON AVER PAURA DELLA MORTE
«Dobbiamo vivere in grazia: è questo il segreto per non avere paura della morte, per saperla affrontare con coraggio, con gioia; è morire durante la vita… mortificarsi, sapersi distaccare, saper vivere tendendo verso il cielo».
IL SENSO DELLA NOSTRA VITA
«La vita acquista un senso pieno se è risposta a Dio, che chiama a rivivere l’esperienza di Gesù di Nazareth, facendo della propria vita un dono a servizio degli altri uomini e impegnando i propri talenti per costruire un mondo in cui regni la pace, la fraternità, l’amore».
E SE OGNUNO FA QUALCOSA…
«Le nostre iniziative e quelle del dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto…»
IL SIGNORE SA ASPETTRE
«Nessun uomo è lontano dal Signore. Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore, sa aspettare. Non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto, si aprirà».
COME IL CHICCO DI FRUMENTO
«Gesù dice: “Se il chicco di frumento non cade nella terra e non marcisce, non dà frutto. Se invece marcisce diventa una spiga”. Da un chicco vengono fuori anche venti chicchi e a volte anche di più. Sarà questa la logica della gioia, se vogliamo crescere. Se noi vogliamo restare immaturi, allora rifiuteremo la logica della croce, la logica del chicco di frumento. Chi vuol crescere deve invece accogliere la logica del chicco di frumento».
ANTIMAFIA: LE PAROLE E I FATTI
«È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti».
MORIRE PER DEI NEMICI
«È difficilissimo morire per un amico, ma morire per dei nemici è ancora più difficile. Cristo però è morto per noi quando noi eravamo ancora suoi nemici. Dio ci rimane sempre accanto, è la costanza dell’amore fino all’estremo limite, anzi senza limiti. Ecco il motivo della nostra gioia».
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