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Palermo, intimidazione nella borgata del delitto. Il successore: «E' rimasto tutto come allora» «Don Puglisi, 10 anni dopo l'omicidio comanda ancora la mafia»

Don Golesano : «Per i problemi reali la gente si rivolge a Cosa Nostra I diritti qui restano sempre favori». Il pm accusa: la Curia si disinteressò dell'inchiesta La replica: la nostra è un'ottica di fede.

data articolo 15/09/2003 autore Corriere della Sera categoria articolo RASSEGNA
 
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Articolo del Corriere della Sera
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PALERMO- E' l'anniversario della rabbia. Perché non basta che don Pino Puglisi diventi santo per la Chiesa, un mito per la tv grazie al volto di Luca Zingaretti, o un icona per le fiaccolate alimentate «solo da parole promesse». Tutto questo non basta ai ragazzi del Centro Padre Nostro, vedette civili di Brancaccio, il Bronx palermitano eletto a laboratorio mafioso dall'ultima versione della «cupola» di borgata, quella in camice bianco, il «clan dei medici». Non basta nel quartiere dove, proprio a dieci anni da quel drammatico 15 settembre, si susseguono intimidazioni, inseguimenti, minacce con porte bruciate o murate. L'ultimo incendio l'altra notte, davanti alla casa della zia di un seminarista di don Pino, un ragazzo morto a Roma in circostanze non chiare. In questo clima pesante pesante è caduto il veleno dell'ultima polemica regalata dalle Poste con la gaffe del francobollo commemorativo emesso a dieci anni dal «martirio» senza spazio per la parola più incisiva, appunto «mafia». Resta una sfilza di interrogazioni, aperte da due ex ministri delle Poste, il primo di Forza Italia, Carlo Vizzini, l'altro leader della Margherita, Salvatore Cardinale, secco: «Un colpo di spugna non può essere scambiato per un tributo». Ma cresce per ben altro la rabbia del successore di padre Puglisi, don Mario Golesano, il sacerdote che si autocandidò alla guida della tormentata parrocchia di Brancaccio il giorno dopo il delitto. Ancora ammaccato per via di una strana aggressione archiviata come rapina, celebra, prega e si danna: «Vedete che cambia poco o nulla qui?». E muovendosi fra i poveri di questo budello dove ragazzetti senza casco sfrecciano a due passi dalla ferrovia preferirebbe tacere, anche se poi esplode: «Santifichiamolo pure, ma in questo quartiere ci voleva un' opera di vero risanamento sociale e almeno una squadra di dieci preti per dare un segno all' opera di don Pino. Invece eccomi qui con tre chiese e tre bypass… E' venuto Ciampi, ma finora tutto è rimasto com' era. Ci sono ancora scantinati di condomini usati come covi di bande e depositi di refurtiva. Per i problemi reali, come una casa per i giovani che si sposano, interviene la mafia. E tutti a dire grazie, grazie, sempre devoti a boss e padrini. I diritti qui restano sempre favori». Bastano poche parole per l' agghiacciante epitaffio con cui Golesano si prepara alle ultime manifestazioni previste per oggi. Ma evita di incrociare la sua rabbia con quella del pubblico ministero Lorenzo Matassa, il magistrata che seguì il caso sin dalla sera del delitto, quando padre Puglisi fu freddato da un killer guardato in faccia con un sorriso bonario: «Me l' aspettavo». Lo stesso sorriso che avrebbe fatto pentire l' assassino, Domenico Grigoli, sanguinaria longa manus dei fratelli Graviano, gli stessi boss coinvolti nelle bombe del '93 a Roma, Firenze e Milano. Quella sera Matassa nulla sapeva né dei carnefici né della vittima e rivela adesso di aver chiesto aiuto al cardinale Salvatore Pappalardo: «Mi sollecitò invece a procedere all' autopsia in nottata per celebrare subito le esequie». Sferzanti le parole del magistrato che ha lasciato palermo per una consulenza alla Commissione Mitrokin: «Sembrava che la chiesa non fosse interessata a trovare l' assassino, ma solo a celebrare il martire. Non trovai alcun aiuto. Non una traccia. E rimasi solo anche al processo dove la verità su quella morte era ostacolata dai silenzi, dall' assenza totale di parti civili: né la chiesa, né altre istituzioni. Sì, diciamolo: don Pino ucciso pure dall' apnea della società civile…». Polemica pesante che Pappalardo, 85 anni, smorza: «Quello che don Pino ha fatto allora, è quello che bisogna fare sempre». Meno ermetico monsignor Domenico Mogavero, postulatore della causa di beatificazione: «Noi ci poniamo in un' ottica di fede: la giustizia civile faccia il suo corso… ma noi non abbiamo un risarcimento da chiedere perché don Puglisi non ce lo ridà nessuno». Imbarazzi e polemiche non mancano. Anche don Golesano lancia la sua provocazione: «La mafia sghignazza quando scriviamo solo fiumi di parole invece di realizzare i nostri sogni». Lo dice con una punta di amarezza perché sa che aleggiano voci oblique, appena sussurrate, su questo quartiere dove si torna a sparare a termine di un' estate cominciata dalla scoperta della cupola gestita dal «clan dei medici». Una sorta di laboratorio mafioso con discussi professionisti decisi a gestire appalti ed assunzioni coinvolgendo un ex assessore comunale ancora agli arresti, Domenico Miceli; e provando a chiedere favori in alto, al presidente della Regione Totò Cuffaro. Lo stesso Cuffaro che, pronto a dichiararsi estraneo ad ogni intesa con quel clan, aveva già aperto da tempo il suo palazzo al successore di don Pino Puglisi, trasformando don Golesano nel suo consulente per i problemi della solidarietà. Con un ufficietto ricavato in un ammezzato di Palazzo d' Orleans dove il parroco va tutte le mattine, tra schede e fascicoli preparati da una funzionaria che dalla mafia è stata offesa nel peggiore dei modi, Tina Montinario, la vedova del caposcorta di Giovanni Falcone. Anche da quell' ufficio parte il messaggio di Cuffaro ai siciliani, con titolo di prima ieri sul Giornale di Sicilia: «La mafia non è riuscita ad uccidere l' eredità che don Pino ci ha lasciato». Sull' anniversario calano così polemiche esplicite ed altre solo accennate. Di qui le voci sulle dimissioni dello stesso Golesano da parroco. «False. Infondate». Qualcuno gli aveva anche suggerito di lasciare l' incarico della Solidarietà alla Regione. E lui: «Per un "avviso di garanzia"? Ma non è forse a "garanzia" dell' indagato? No, la strada della solidarietà non ha colore politico». Felice Cavallaro

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